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A "Parole di Giustizia" l'intervento del prof Antonio Cantaro

Comunicato stampa pubblicato il giorno 22/10/2021

Sabato 23 ottobre il convegno "Parole di Giustizia" si sposta a Pesaro, dove tra gli altri ci sarà l'intervento del professor Antonio Cantaro, di cui è appena uscito "Postpandemia. Pensieri (meta)giuridici (Giappichelli, 2021). Qui di seguito un estratto:

"....Mario Draghi, come recita il tema generale delle nostre giornate, sembra proprio avercela fatta. Ha messo in-sicurezza l’Italia, in linea con il mandato conferitogli a suo tempo dal Presidente della Repubblica. In sicurezza in tutti i sensi, non solo in quello sanitario.

Per la stampa internazionale, il “bel Paese” in questo momento “scoppia di salute”, presenta tassi di crescita superiori a tutte le economie occidentali. Più dell’America, più della Germania. Nel frattempo i media italiani quasi all’unisono sono invasi da titolazioni adoranti per l’intransigenza mostrata da Palazzo Chigi nei confronti delle proteste dei no-green pass e dei portuali; per la fermezza del premier su qualsivoglia materia (giustizia, fisco, sicurezza sul lavoro) e nei confronti dei balbettanti o ondivaghi partiti che sostengono la sua coalizione. Draghi “tira dritto” come desidera - si fa intendere - la “maggioranza silenziosa” ed operosa del Paese, quella che vuol lavorare e produrre.

Perché, allora, tanta rabbia e risentimento in una parte - una minoranza certo - del nostro Paese? E perché tanto sorpresa e sconcerto nella maggioranza per questa rabbia e risentimento?

I promotori delle nostre giornate, consapevoli di quest’altra faccia della realtà, hanno opportunamente fatto seguire al titolo in-sicurezza un secondo titolo che recita parole di giustizia. La sicurezza, lo sa bene il pubblico di questo nostro incontro pomeridiano, è condizione essenziale affinché possa esservi giustizia. E, tuttavia, la promessa di una vita ordinata non è di per sé garanzia di una vita sociale giusta se anche la minoranza dei governati non sente odore di giustizia, non è intimamente persuasa che i governanti si stiano adoperando per rimuovere le radici profonde delle loro paure e insicurezze.

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Dobbiamo distinguere tra cause scatenanti delle proteste e cause risalenti. La principale causa scatenante è l’opinabile decisione di non prevedere l’obbligo vaccinale. La mancata codificazione di un obbligo espresso ha alimentato in una parte della popolazione la convinzione - giusta o sbagliata che tale convinzione sia dal punto di vista giuridico – che esista un assoluto diritto morale di ciascuno di determinare ciò che è necessario per mettersi in sicurezza. Libertà libertà recitano cartelli e slogan di tante piazze: l’esasperata affermazione di un io sovrano, “libero” da ogni vincolo comunitario

La narrazione alla quale hanno fatto ricorso scienziati e governo per far fronte a questa deformazione anarchico/privatistica dell’idea di libertà è troppo forte e, allo stesso tempo, troppo debole. Troppo forte l’enfasi miracolistica sui vaccini: se questi sono lo strumento più efficace che abbiamo oggi a disposizione perché non assumersi la responsabilità politica di prescriverne l’obbligatorietà? E, d’altra parte, troppo debole è l’idea negativa di libertà invocata, la catechistica favoletta da filosofia da bar che “la mia libertà finisce dove comincia la tua”.

Un’idea lontana da quella virtuosa coesistenza di diritti inviolabili e inderogabili doveri di solidarietà di cui parla l’art. 2 della Costituzione e sulla quale Francesco Pallante ha di recente giustamente richiamato l’attenzione.

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Il tema del declino della forza simbolico/normativa dell’accoppiata diritti/doveri postulata dalla nostra Carta costituzionale ci rinvia alle cause risalenti delle proteste delle minoranze rumorose nelle piazze e del contestuale sbigottimento dei notiziari e dei salotti televisivi che si fanno interpreti delle maggioranze silenziose che vogliono comunque tornare alla normalità, che vogliono tornare liberamente in sicurezza a produrre, a lavorare, a svagarsi.

Libertà contro libertà. Ed invero il variegato fronte dei no - non solo quello delle componenti squadriste che provano a prenderne la guida - si alimenta da tempo di una, a suo modo, scientifica contro-narrazione di ciò che è accaduto nel mondo pandemico e di ciò che continua e in quello post-pandemico.

Potrà non piacere a molti di noi. Molti di noi stigmatizzano questa contro-narrazione come frutto di un delirio paranoico. Ma è un fatto che siamo di fronte ad un carburante emotivamente potente. La stragrande maggioranza dei no green pass e dei no vax crede veramente all’esistenza di un mega-complotto planetario che coinvolge università, professori, laboratori pubblici e privati, ricercatori, medici, autorità preposte alla regolazione dei farmaci e, ovviamente, le Big Pharma. Verità contro Verità.

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Quando ci si appella alla Verità con la V maiuscola entrano in campo i filosofi. Alcuni di essi, assai autorevoli, hanno alimentato la contro narrazione complottista. Hanno denunciato il pericolo che con il nobile “pretesto” di tutelare la salute dei cittadini si sta aprendo la strada ad “un controllo senza precedenti della vita sociale”, ad una limitazione del nucleo essenziale delle libertà tutelate dallo Stato di diritto, alla sospensione delle più elementari di «garanzie costituzionali», alla creazione di “cittadini di seconda classe”, all’instaurazione di un «regime dispotico di emergenza». E per enfatizzare l’allarme sul carattere “dittatoriale” e “tirannico” del nuovo regime non hanno esitato a ricorrere ad immagini forti, arrivando a proporre “un’analogia giuridico-politica” tra «la discriminazione risultante dal green pass e la persecuzione degli ebrei”.

Condivido l’ineccepibile replica fornita a suo tempo nelle pagine de L’Espresso dalla nostra ospite. Donatella Di Cesare ha con pacatezza ricordato l’abissale distanza tra le due situazioni e il potenziale significato storicamente assolutorio dell’ardita analogia. Gli ebrei - ha replicato - che portavano la stella gialla erano discriminati semplicemente e irrimediabilmente per il loro “essere” e sono finiti nei lager e nelle camere a gas anche quando si convertivano.

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Lo “stile” di far valere le proprie ragioni con nettezza e passione ma in modo argomentato le proprie convinzioni è quello che ci si aspetta dalla discussione pubblica in democrazia, la terza parola al centro del nostro incontro. Non si tratta di una retorica dei buoni sentimenti, ma di qualcosa che, per gli eredi del razionalismo occidentale, è stato a lungo qualcosa di ovvio.

Mi piace ricordare le illuminanti pagine di Elias Canetti sul sistema parlamentare. Lì si svolge - scriveva lo scrittore bulgaro in Massa e potere - uno «scontro che si compie in molteplici modi», persino «con la minaccia, l’oltraggio, l’eccitazione fisica», ma che alla fine attraverso la votazione «rimane determinante come il momento in cui davvero ci si misura», si prende una decisione, sia pur provvisoria e reversibile, che viene accettata dagli sconfitti come legale e vincolante”. «Nessuno ha mai creduto davvero che l’opinione del maggior numero in una votazione sia anche la più saggia. Volontà contro volontà, come in guerra, a ciascuna delle due volontà si accompagna la convinzione del proprio maggiore diritto e della propria ragionevolezza. L’avversario, battuto nella votazione, non si rassegna affatto poiché ora improvvisamente non crede più nel suo diritto; egli si limita piuttosto a dichiararsi sconfitto».

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Sconfitto, ma non vinto. È questo il tema che vorrei porre. Perché non resistiamo più alla distruttiva tentazione di delegittimare moralmente coloro che la pensano e agiscono diversamente da noi? Perché non sappiamo più perdere e non sappiamo più vincere? Perché agiamo il conflitto nella sfera pubblica e nell’arena politica come se fossimo nel lettino dello psicoanalista?

Possiamo dirci veramente certi che ad alimentare lo slogan “negazionista” libertà libertà delle piazze, non abbia concorso l’inquietudine per dei pubblici poteri che alle paure e agli interessi dei governati antepongono le c.d. ragioni scientifiche, senza farsi carico di valutare se le conseguenze di queste ragioni siano socialmente condivise? Lo scientismo come “arte di governo”, le verità saccenti e altezzose degli esperti, l’assolutismo delle ‘decisioni’ algoritmiche, il culto fideistico dei dati, di cui ha parlato proprio Donatella Di Cesare.

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La pan-demagogia dei pro vax può essere velenosa quanto la pan-demagogia dei “negazionisti”. Sollecita invece che la curiosità autenticamente scientifica del dubbio, il bisogno di facili certezze catechistiche. Una contro-narrazione che non chiede ai governanti di tornare ad assumersi le proprie responsabilità, che non reclama cura autentica dei governati. Ma, viceversa, innalza la bandiera anarchico- libertaria di un “io sovrano che si colloca al di fuori e al di sopra di ogni legame sociale” e in nome di questa a-dialettica libertà naturale rivendica il privilegio di una “cura di sé” che si trae fuori dalla comunità, di un primato assoluto del proprio volere indipendentemente da ciò che accade intorno. E magari pretende - ha ricordato Francesco Pallante - di scaricare il “costo” di questa libertà di scelta sugli altri. Ma delle due l’una: o ci si svincola dalla collettività o ci si vincola alla collettività.

E, tuttavia, sino a quando continueremo a usare delle invettive per stigmatizzare questi sentimenti io penso che non faremo un buon servizio alla causa della salute pubblica, della sicurezza collettiva. È necessario mettere da parte ogni supponenza e prendere sul serio paure e timori che circolano in una parte della popolazione. La “velenosa demagogia” dei negazionisti” non viene da Marte, come crede il direttore de “La Stampa”. E non può essere solo imputata all’impazzimento di “scomposte piccole porzioni di popolo” ammalate di cultura del sospetto popolarizzata e aizzata dal web.

La pan-demagogia dei negazionisti parla del nostro tempo, parla di tutti noi. Per questa ragione, alla volgarità da bar e da social dei “negazionisti” (“Il Green Pass è una merda!”) fa da pendant un altrettanto truce volgarità degli “etici” e dei “responsabili” (“Spero che ti intubino la nonna!”). Le contrapposte “libertà naturali” invocate nelle piazze reali e virtuali dai due fronti della ‘disputa’ parlano della stessa libertà di tornare alla normalità dell’altro ieri (“far ripartire il paese”). Altro che la nuova normalità auspicata e subito dimenticata nei talk show televisivi delle settimane successive allo scoppio della Pandemia.

I “negazionisti” sono figli della dominante antropologia neoliberale dell’assenza di qualsivoglia limite. Della performance assoluta - la società della prestazione - quale unica norma di condotta dell’individuo postmoderno, di un assolutismo della libertà che nega qualsivoglia idea di “bene comune”.

Che fare per rimettere, canettianamente, in forma i conflitti della nostra epoca postpandemica?...." 

 

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